Testimonianza del Sac. Giovanni Fortin
Ogni volta che io ho letto il libro dei “ Promessi Sposi,, mi sono soffermato a studiare ed a penetrare la profondità del saluto che Lucia diede alla sua città natale, quando dal Lago si scostò per l’ ignorata meta. “Addio monti sorgenti dalle acque...".
Confesso che mai però compresi tutta la profondità delle accorate espressioni della partente, come quando un giorno varcando le frontiere della Patria, salutai col cuore infranto la mia Italia.
I giorni della prigionia erano tremendi, avevamo già dinanzi la tetra visione di qualche cosa che doveva opprimere, che doveva infrangere la nostra fibra e quasi il nostro morale. Ma il dolore, l’ amarezza che il prigioniero prova, che l’ esule sente in cuore lasciando la sua Patria è fortemente, e vorrei dire, sovrabbondantemente confortata nel giorno in cui, spezzate le catene ed aperte le frontiere, il pellegrino si sente di nuovo figlio della libertà, si sente ancora e più fortemente figlio della Patria.
Vi confesso che questa gioia però nel giorno del mio ritorno dal campo di concentramento di Dachau non è stata piena, non è stata completa. Mancava qualche cosa al mio cuore, mancava qualche cosa alla gioia dell’animo mio. Dieci eravamo avvinti dalle stesse catene nel giorno della nostra partenza, due soltanto ritornavamo figli della libertà. Un vuoto veramente incolmabile, un vuoto incolmabile aveva lasciato nell’ animo nostro la perdita del non mai abbastanza compianto Ing. Meloni.
Conobbi il chiarissimo Ing. Meloni il 14 dicembre del!’anno 1943, quando arrestato nella mia Parrocchia, fui condotto alla sede della guardia repubblicana di Venezia.
Vidi l’ immobile figura dinanzi al tavolo del non mai abbastanza esecrato Capitano Zane; lo vidi dinanzi a quell’ uomo che andava attanagliandolo in un serrato e stringente interrogatorio e vidi quella figura serena e calma.
Da quella bocca nessuna parola ebbe ad uscire che compromettesse lui e i suoi compagni di azione. E dopo lunghi tentativi da parte dell’ interrogante il povero lng. Meloni fu rinchiuso nella camera di sicurezza ed ivi lasciato fino a tarda notte del giorno seguente.
In quella sera dopo essere stato in quella camera oscura senza cibo, da tutti abbarrdonato e dimenticato meno da voi che lo seguivate con tanto fraterno interesse, il povero ingegnere, posto in catene, fu condotto dalla sede della guardia repubblicana a S. Maria Maggiore. Eravamo dieci in catene. Eravamo affratellati dalla catena della sofferenza. Non erano soltanto i nostri polsi uniti: erano i nostri cuori che erano stati avvinti dalla catena della sofferenza, sofferenza che è cemento della letizia, cemento di fratellanza
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Passammo alla cella di S. Maria Maggiore ed ivi il primo balsamo del conforto ci fu dato da Mons. Dell’Andrea, zelantissimo cappellano delle carceri. Avevamo l’ impressione di entrare in un carcere, di essere abbandonati, di essere dei reietti; abbianio sentito invece la mano paterna che lenisce le nostre sofferenze, abbiamo sentito il balsamo che ristora il nostro cuore. A lui la nostra gratitudine, a lui l’augurio che possa compiere con tanto zelo e tanto amore paterno la sua missione per quanti nel carcere entrano e soffrono. Ed ivi restammo per oltre due mesi e mezzo.
Ebbi un primo incontro con l’ lng. Meloni in quelle ore che sono dette di sollievo; in quell’ ora che vien data per conversare e per prendere un pò d’ aria, dopo di averne passate 23 in una cella dove l’aria e la luce difettano assai. C’incontrammo i primi giorni ed ivi scambiammo le nostre impressioni; e dico il vero, mai ho trovatp un’ anima tanto avvincente, mai ho trovato un’ anima così aperta, un’ anima così profondamente conoscitrice delle umane miserie, un’ anima che sentisse veramente il palpito di amore e di tenerezza fraterna per i sofferenti. Due mesi e mezzo passammo insieme in quel carcere. Durante i due mesi e mezzo due volte sole il chiarissimo ingegnere fu interrogato da parte della Autorità, da parte delle SS., e mi disse, soltanto poco dopo il colloquio, di essere stato interrogato per cose strettamente personali, familiari, finanziarie.
Per quello che riguardava il nostro capo d’ accusa nessuna parola, sempre avvolto nelle tenebre, sempre posto nell’ ombra, nell’ oscurità. Un giorno mentre si parlava di liberazione, mentre si credeva spuntato sull’ orizzonte della nostra vita ancora il sole della libertà, ci venne portata la triste notizia che noi eravamo trasferiti da quel carcere e destinati a meta ignota. Trapelò la notizia che eravamo destinati, essendo stati venduti dalla repubblica alle SS. tedesche, ad un campo di concentramento in Germania.
Non vi nascondo, Signori, il turbamento delI’ anima nostra perché qualche cosa già sapevamo della barbarie tedesca sopra coloro particolarmente che erano accusati di delitti politici. Ma abbiamo guardato con occhio sereno alla croce, abbiamo visto che nella croce c’ era qualcosa che veniva dall’ alto, abbiamo visto che il Signore giocava, giocava con quella che era la cattiveria umana che voleva la nostra distruzione, che voleva il nostro annientamento. E fu così che il mattino del 28 febbraio 1944 uscimmo ancora avvinti dalla stessa catena, non tanto dalle catene che legavano i nostri polsi, quanto da quelle che legavano i nostri cuori fatti adamantini di fronte alla sofferenza e al dolore e fummo portati alla stazione. E alla stazione soffrimmo indicibilmente per vederci attorniati e sghignazzati da coloro che avevano operato Il nostro tradimento; quegli alcuni nefandi uomini che ci avevano arrestato, erano venuti alla stazione per ridere, sulle nostre miserie, per ridere sul nostro dolore, e fummo schiantati. Ma quando il treno si mosse, quando già il nostro passo verso il calvario si iniziava, ci siamo sentiti fieri della nostra sofferenza, fieri della nostra croce.
Fummo portati in quel mattino del 28 febbraio nelle carceri di S. Leonardo a Verona; quindi da S. Leonardo a S. Mattia e lì noi fummo destinati a rimanere tutto il giorno al vento e alla pioggia in attesa che finalmente a notte inoltrata ci chiudessero entro una stalla insieme coi muli.
Era il primo anello di una serie di giorni tristissimi che la Divina Provvidenza per noi preparava e anche in quel giorno, a triste fortuna facemmo buon viso. La notte dovemmo passarla insieme con degli animali in un luogo immondo, dove non era possibile posare piede se non sopra la sporcizia, se non sopra l’ immondezza. E al mattino, dopo la notte passata in bianco, fummo svegliati dalle SS. e avemmo il cambio di guardia. I militi della repubblica che ci avevano accompagnato fino a Verona, ci lasciarono ed eravamo già in mano di quegli aguzzini delle SS. che ci accompagnarono fino alla porta del famigerato campo di concentramento.
Passammo per le strade con alle spalle il fucile spianato fino alla stazione di Verona e attendemmo di essere posti sul treno che ci doveva portare a Monaco. Ed infatti dopo un viaggio che non ebbe rilevanti disagi, noi arrivammo a Monaco, e da Monaco attendemmo alquanto l’ arrivo del piccolo treno che ci doveva recare a Dachau. Alla sera alle ore 8, così suonava e segnava l'orologio di quella torre, entrammo nel campo di Dachau. Ed allora sopra di noi le prime sevizie.
Fummo posti a dormire sul nudo pavimento entro il bagno in attesa che venisse per noi il primo marzo, giorno in cui iniziava la nostra vita di detenuti politici in quel campo di concentramento. E venne tosto il mattino, avendo anche in quella notte assai poco dormito.
Fummo spogliati delle nostre vesti, spogliati, depilati e disinfettati - dicevano loro - con petrolio, e all’aria aperta, a trenta gradi sotto zero, nudi, fummo costretti a correre sulla neve, fatti segno di obbrobrio e di ludibrio da parte della milizia tedesca. Al nostro dolore, alla nostra vergogna, si volle unire lo scherno da parte di quei soldati che ci chiamavano Badoglio, da parte dei compagni di prigionia che ci chiamavano fascisti. Così si iniziò la nostra prima giornata e fino a mezzogiorno noi stemmo in quell’ abbigliamento; a mezzogiorno fummo condotti, piccola schiera di dieci prigionieri cui erano stati associati altri dieci capeggiati pure da un sacerdote proveniente da Brescia, nella baracca di quarantena e qui stemmo per venti giorni in attesa di destinazione per il nuovo campo di concentramento, per il nuovo campo di lavoro. Ventun giorni di segregazione assoluta; nessun contatto con gli altri compagni di prigionia.
Chi era la forza morale della nostra piccola schiera? Era l' Ing. Meloni. lì suo corpo sembrava di giorno in giorno assottigliarsi, ma il suo spirito ingigantiva maggiormente. I giorni di prigionia veneziana avevano quasi fiaccato il suo corpo, ma egli era ancora sostenuto, pur essendo tanto gracile; era il morale che rinforzava il suo corpo, era una visione lontana di bene che egli pensava di dover compiere un giorno tornato in Patria che lo sosteneva, ma era anche una visione vicina, era la visione della sofferenza che egli accoglieva dalle mani della Provvidenza come missione, missione di bene, di personale missione di bene collettivo a beneficio della umanità.
Ed ivi stemmo per ventun giorni mentre intanto si compivano gli smistanienti, mentre già si compivano le schiere che dovevano passare da un campo all’ altro in attesa di lavoro, in attesa di destinazione a qualche comando. Ed eravamo stati destinati alle miniere di carbone dell’ Alsazia, quando venne a noi la provvidenza incontro nella persona di un santissimo uomo, il Direttore del Seminario di Praga, Mons. Giuseppe Beram, Professore di quella Università. Egli si prese a cuore la sorte di noi Sacerdoti, ma anche la sorte del buon lng. Meloni, con Il quale aveva già contratto relazione e del quale aveva stimato l’alta intelligenza e la finezza del cuore. Aveva così potuto - mediante il suo paterno interessamento - risparmiarci, a noi, la partenza e le miniere dell’ Alsazia; e fummo destinati ai lavori dei campi.
Ma sfortunatamente il buon ingegnere ebbe destinazione a Teresienstadt per la Cecoslovacchia e tosto dovette partire. Verso la fine di marzo egli era già in un altro campo di concentramento, nella Cecoslovacchia.
Dovette attendere al lavoro campestre, e ogni mattina dalla baracca dove dormiva, doveva compiere otto chilometri di strada per portarsi al campo, alla sera nuovi otto chilometri per rientrare alla baracca. Il cibo scarsissimo e mal preparato che veniva dato ai prigionieri, insieme col male che minava la sua già esile fibra, fu motivo per cui egli si sentì tosto prostrato e dopo otto giorni di lavoro, una sera tornò stanco in modo da non potere, come egli diceva, reggersi in piedi. Tornato alla baracca si pose nel suo giaciglio, prese sonno, e all’ ora dell’ appello non potè comparire sulla piazza. Si cercò il mancante e lo si trovò addormentato sopra il giaciglio. Montato in furia il capo della baracca, con un grosso nerbo di bue lo percosse a tale segno da farlo credere morto. Da quel giaciglio non si potè levare; e si giustificò allora l’ assenza del colpito, l’ assenza del battuto; soltanto allora fu giustificato all’ appello.
Ma passati alcuni giorni, mentre si vedeva ormai che veniva meno la sua esistenza, da un’anima pietosa fu deciso il ritorno a Dachau, e dopo 15 giorni dalla sua partenza, verso la metà di aprile, il buon ingegnere era di nuovo a Dachau. Non posso dirvi la letizia dell’ anima mia, quando seppi del ritorno del desideratissimo amico.
Tosto lo visitai e vidi le sue condizioni veramente pietose, veramente impressionanti. Lo raccomandai ai buoni sacerdoti di Cecoslovacchia e Austriaci, che a dire il vero si prodigarono con generosità cristiana per il bene del buon ingegnere. Medicine e cibo furono a lui somministrati, in modo che dopo 15 giorni poteva sentirsi completamente ristabilito. Con quale riconoscenza egli mi esternava i suoi sentimenti verso coloro che lo avevano aiutato e beneficato, anime buone che allora promisero un interessamento continuo anche per I’ avvenire perché la sua vita di prigioniero non fosse gravata da nuovi croci, da nuove sofferenze! Ecco infatti un buon sacerdote austriaco che si interessa perché l’ ingegnere venga assunto quale disegnatore in una fabbrica. La domanda è accettata, ma gli si sbarra la porta quando si sa che l’ ingegnere non parla correttamente la ligua tedesca. Dinanzi a questa porta che si chiude, l’anima non si abbatte, ma guarda serena alla nuova croce, alla nuova prova che il Signore gli dà.
Ma la Provvidenza non tutte le porte vuole chiuse, ed ecco allora che s’ interessa di lui il buon sacerdote polacco che verso la metà dl maggio lo accoglie in una corderia e gli assegna un posto seduto del quale l’ingegnére diceva: “ lo sono come un principe nel suo trono ". Compie questo lavoro senza tanti disagi, senza tanti sacrifici. Al mattino, a mezzogiorno e alla sera noi avevamo quotidianamente il nostro triplice incontro. E allora si parlava della Patria, si parlava della nostra missione al ritorno, si parlava di quelle che erano le condizioni del nostro paese e quando qualche notizia trapelava da una parte o dall’ altra, era ansia dell’ anima nostra potercela comunicare.
Una sera egli mi parlò del doloree mi disse:
“ Il dolore è un grande fratello, il dolore è un grande amico. lo vi ringrazio, Signore, perché sotto il peso della sofferenza mi sento rifatto, mi sento rinato. Per conto mio il dolore ha una missione di purificazione, ha una missione di luce. Perché, diceva a me, lei non ha mai parlato a me di cose spirituali? ... lo invero lo feci appunto per delicatezza verso di lui. Però dai suoi discorsi e da sue espressioni io potei conoscere la fine spiritualità della sua anima, la fine pietà del suo cuore. Una volta mi disse: “Mi sento tanto purificato, sento rinato in me, qualche cosa di quello che la mamma mia mi ha insegnato, di quello che un giorno fu frutto della mia convinzione, frutto della mia educazione cristiana. lo voglio darmi a Dio e voglio darmi in maniera generosa". Devo confessare, Signori, che fui commosso della sua bontà, fui commosso dall’ aprirsi dell’ anima del caro e grande ingegnere.
E volli prepararlo alla sua confessione e alla sua comunione pasquale. lo sento e credo che il Signore sarà contento del suo sacrificio e sarà contento della mia generosità. Ecco le grandi parole, ecco le grandi espressioni, ecco l’ atto di dedizione generosa nelle mani del Signore! lo dissi a lui: " Lei sa, ingegnere, che per il confessore e per il penitente già sono le pene designate: 25 nervate per il sacerdote che confessa, 25 per il penitente che depone nel cuore del sacerdote le sue miserie". Ed egli disse: " Sieno anche 50, meglio la grazia di Dio, meglio l’ amicizia del Signore, meglio l’ usbergo del sentirsi puro " che non la sicurezza delle 25 o 50 vergate". Fece clandestinamente nella oscurità della notte la sua confessione e la sua comunione e, piangendo, mi ebbe a dire: “ Mai tanta gioia inondò il mio cuore quanto in questo giorno in cui mi sento nuovamente stretto al mio Dio per il quale soffro e dal quale sento che grandi coforti sono per venire al mio cuore". Più volte poté ripetere la confessione e la comunione, fino al giorno della sua morte.
Ma egli sentiva il bisogno di farsi apostolo in mezzo ai compagni. La fiamma che Cristo aveva acceso nel suo cuore, non si estingueva, anzi si dilatavai. Ed eccolo apostolo tra i suoi compagni, eccolo preparare ai compagni il lavoro e godere della loro stessa letizia. Ecco aprire la strad ad altri che erano lontani, perché in Cristo trovassero la loro felicità, perché in Cristo sentissero la gioia in mezzo al dolore, in mezzo alla sofferenza.
Questa fu la sua vita durante la seconda parte del mese di maggio e nel mese di giugno.
Il giorno 2 luglio dell’ anno stesso si senti indisposto. Mi fece annunziare questa sua indisposizione e fui tosto alla sua baracca: e mi disse che una tormentosa foruncolosi lo turbava. In infermeria potei trovare qualche cosa per la sua salute.
Il giorno 3 luglio egli riprese la sua vita normale, continuò il suo lavoro. Lavorò soltanto fino a giovedì sera, quando tornato stanco dalla corderia si pose sul suo giaciglio e, poichè la febbre era altissima, passò all’ infermeria. All’infermeria lo raccomandai alla bravura del medico chirurgo, il Dott. Arko, già stretto agli italiani da forti vincoli di amicizia perché nella precedente guerra, essendo stato prigioniero, fu accolto, nascosto, nutrito e salvato dagli italiani.
Il venerdì la febbre aumentò, verso sera incominciò il delirio ed egli faceva segno che qualche cosa lo tormentava al basso ventre. Al sabato mattina lo stesso Dott. Arko disse essere necessario un atto operatorio. Dopo che l' atto operatorio fu compiuto, si riscontrò che un male tremendo aveva rovinato il suo intestino. L’ arte medica, mi disse il medico sconsolato, l’arte medica nulla può sulla fibra del povero ingegnere. Soltanto un miracolo di Dio lo può ancora salvare.
Rimase per tutto il sabato in stato preagonico e la domenica in stato agonico. Domandai di poterlo visitare. Lo vidi soltanto al giovedì, ma era proibito assolutamente l’ingresso degli estranei all’infermeria, tanto più era proibito l’ ingresso del sacerdote, il quale clandestinamente sarebbe potuto entrare per amministrare i sacramenti, il che era vietato, come si disse, sotto pena di gravi tormenti.
Il medico allora escogitò un mezzo per potermi fare entrare; ma alla domenica del 9 luglio, all’ ora che io dovevo entrare nell’ infermeria, l’ lng. Meloni non era più sul letto. Egli era già sull’ atrio arrovellato di tanti compagni di prigionia, sopra il quale era passato l’ Angelo della morte. Si era spento sereno, si era spento con l’ occhio fisso al cielo, senza proferire parola alcuna.
Vi confesso, Signori, che rimasi costernato di fronte a tanta perdita, e uscito tosto dalla infermeria, perchè non potevo più oltre fermarmi, mi aggirai intorno a quella baracca e per tutta la giornata me ne stetti lì, nella impossibilità morale di staccarmi da un tanto amico, inconsolabile nel mio cuore per una perdita tanto grave.
La notizia della morte dell’ ingegnere si diffuse per tutto il campo e fu unanime il compianto degli italiani che avevano conosciuto nell’ lng. Meloni, una persona superiore ed avevano stimato l ’ altissimo in.....
(Nel fascicolo fotocopiato in mio possesso mancano le pagine da 32 a 36).