Gramsci e Santu Lussurgiu
Le Lettere dal carcere, uno dei più splendidi e commoventi epistolari della nostra letteratura, hanno messo in luce le qualità di scrittore di Gramsci, la sua intensa umanità, lo straordinario equilibrio con cui seppe affrontare le sofferenze del carcere.
In questa cernita sono riportati alcuni frammenti delle lettere a Tania (Tat'jana - Tatiana), cognata di Antonio, ed in particolare quelli nei quali racconta il suo periodo di studi ginnasiali a Santu Lussurgiu (1905 - 1908). (1)
Lettera del 26 dicembre 1927
Carissima Tania,
... Invece ti voglio raccontare un episodio quasi natalizio della mia fanciullezza, che ti divertirà e ti darà un tratto caratteristico della vita dalle mie parti. Avevo 14 anni e facevo la terza ginnasiale a Santu Lussurgiu, un paese distante dal mio circa 18 kilometri e dove credo esista ancora un ginnasio comunale in verità molto scalcinato. Con un altro ragazzo, per guadagnare 24 ore in famiglia, ci mettemmo in istrada a piedi il dopopranzo del 23 dicembre invece di aspettare la diligenza del mattino seguente. Cammina, cammina eravamo circa a metà viaggio, in un posto completamente deserto e solitario, a sinistra, un centinaio di metri dalla strada, si allungava una fila di pioppi con delle boscaglie di lentischi. Ci spararono un primo colpo di fucile in alto sulla testa; la pallottola fischiò a una decina di metri in alto. Credemmo a un colpo casuale e continuammo tranquilli. Un secondo e un terzo colpo più bassi ci avvertirono subito che eravamo proprio presi di mira e allora ci buttammo nella cunetta, rimanendo appiattati un pezzo. Quando provammo a sollevarci, altro colpo e così via per circa due ore con una dozzina di colpi che ci inseguivano mentre ci allontanavamo, strisciando, ogni volta che tentavamo di ritornare sulla strada. Certamente era una comitiva di buontemponi che voleva divertirsi a spaventarci, ma che bello scherzo, eh? Arrivammo a casa a notte buia, discretamente stanchi e infangati e non raccontammo la storia a nessuno, per non spaventare in famiglia, ma non ci spaventammo granché perché alle prossime vacanze di carnevale il viaggio a piedi fu ripetuto senza incidenti di sorta. Ed ecco che ti ho riempito quasi interamente le quattro pagine!
Ti abbraccio teneramente.
Antonio
Ma la storia è proprio vera; non è affatto una storia di briganti!
Lettera del 9 aprile 1928
Carissima Tania,
... Io avevo spiccatissime tendenze per le scienze esatte e per la matematica, da ragazzo. Le ho perdute durante gli studi ginnasiali perché non ho avuto insegnanti che valessero un poco più di un fico secco. Cosi dopo il 1° anno di liceo, non ho più studiato matematica, ma ho invece scelto il greco (allora c'era l'opzione); però in 3° anno di liceo ho dimostrato improvvisamente di aver conservato una «capacità» notevole. Succedeva allora che in 3° anno di liceo bisognava, per studiare la fisica, conoscere gli elementi di matematica che gli alunni che avevano optato per il greco, non avevano l'obbligo di sapere. Il professore di fisica, che era molto distinto, si divertiva un mondo a metterci in imbarazzo. Nell'ultimo interrogatorio del 3° trimestre, mi propose delle quistioni di fisica legate alla matematica, dicendomi che dalla esposizione che ne avrei fatto sarebbe dipesa la media annuale e quindi il passaggio di licenza con o senza esame: si divertiva molto a vedermi alla lavagna, dove mi lasciò tutto il tempo che volli. Ebbene, rimasi mezz'ora alla lavagna, mi imbiancai di gesso dai capelli alle scarpe, tentai, ritentai, scrissi, cancellai, ma finalmente «inventai» una dimostrazione che fu accolta dal professore come ottima, quantunque non esistesse in nessun trattato. Questo professore conosceva mio fratello maggiore, a Cagliari, e mi tormentò con le sue risate ancora per tutto il tempo della scuola: mi chiamava il fisico grecizzante.
Carissima Tania, bando agli avvilimenti e scrivimi spesso.
Ti abbraccio.
Antonio
Lettera del 2 giugno 1930
Carissima Tatiana
... Carissima, voglio scriverti di una quistione che ti farà arrabbiare o ti farà ridere. Sfogliando il piccolo Larousse mi è ritornato alla memoria un problema abbastanza curioso. Da bambino io ero un infaticabile cacciatore di lucertole e serpi, che davo da mangiare a un bellissimo falco che avevo addomesticato. Durante queste cacce nelle campagne del mio paese (Ghilarza), mi capitò tre o quattro volte di trovare un animale molto simile al serpe comune (biscia), solo che aveva quattro zampette, due vicino alla testa e due molto lontane dalle prime, vicino alla coda (se si può chiamare così): l'animale era lungo 60-70 centimetri, molto grosso in confronto della lunghezza, la sua grossezza corrisponde a quella di una biscia di 1 metro e 20 o un metro e 50. Le gambette non gli sono molto utili perché scappava strisciando molto lentamente. AL mio paese questo rettile si chiamava scurzone, che vorrebbe dire scorciato (curzu vuol dire corto) e il nome si riferisce certamente al fatto che sembra una biscia scorciata (bada che c'è anche l'orbettino (2), che alla poca lunghezza unisce la proporzionata sottigliezza del corpo).
A Santu Lussurgiu dove ho fatto le tre ultime classi del Ginnasio, domandai al professore di storia naturale (che veramente era un vecchio ingegnere del luogo) come si chiamasse in italiano lo scurzone. Egli rise e mi disse che era un animale immaginario, l'aspide o il basilisco, e che non conosceva nessun animale come quello che io descrivevo.
I ragazzi di Santu Lussurgiu spiegarono che nel loro paese scurzone era appunto il basilisco, e che l'animale da me descritto si chiamava coloru (coluber latino), mentre la biscia si chiamava colora al femminile, ma il professore disse che erano tutte superstizioni da contadini e che le biscie con le zampe non esistono.
Tu sai come faccia rabbia a un ragazzo sentirsi dar torto quando invece sa di aver ragione o addirittura essere preso in giro come superstizioso in una quistione di cose reali; penso che a questa reazione contro l'autorità messa al servizio dell'ignoranza sicura di sè stessa è dovuto se ancora mi ricordo l'episodio.
Al mio paese non avevo mai sentito parlare delle qualità malefiche del basilisco-scurzone, che però in altri paesi era temuto e circondato di leggende.
Ora appunto nel Larousse ho visto nella tavola dei rettili un sauriano, il seps, che è appunto una biscia con quattro zampette (il Larousse dice che abita in Spagna e la Francia meridionale, è della famiglia degli scincidés il cui rappresentante tipico è lo scinque (forse il ramarro?) La figura del seps non corrisponde molto allo scurzone del mio paese: il seps è una biscia regolare, sottile, lunga, proporzionata, e le zampette sono attaccate al corpo armonicamente; lo scurzone invece è una animale repellente: la sua testa è molto grossa, non piccola come quelle delle bisce; la «coda» è molto conica; le due zampette davanti sono troppo vicine alla testa, e sono poi troppo lontane dalle zampe di dietro; le zampe sono bianchicce, malsane, come quelle del proteo e danno l'impressione della mostruosità, dell'anormalità.
Tutto l'animale, che abita in luoghi umidi (io l'ho sempre visto dopo aver rotolato grandi sassi) fa una impressione sgraziata, non come la lucertola e la biscia, che a parte la repulsione generica dell'uomo per i rettili, sono in fondo eleganti e graziose. Vorrei ora sapere dalla tua sapienza di storia naturale, se questo animale ha un nome italiano e se è noto che in Sardegna esista questa specie che deve essere della stessa famiglia dello seps francese. E' possibile che la leggenda del basilisco abbia impedito di ricercare l'animale in Sardegna; il professore di Santu Lussurgiu non era uno stupido, tutt'altro, ed era anche molto studioso; faceva collezioni mineralogiche ecc. eppure non credeva che esistesse lo «scurzone» come realtà molto pedestre, senza alito avvelenato e occhi incendiari. Certo questo animale non è molto comune: io l'ho visto non più di una mezza dozzina di volte e sempre sotto dei massi, mentre biscie ne ho viste a migliaia senza bisogno di muovere sassi.
Cara Tatiana, non arrabbiarti troppo di queste mie divagazioni.
Ti abbraccio teneramente
Antonio
Lettera del 12 settembre 1932.
Quando ero al ginnasio (un piccolo ginnasio comunale a Santu Lussurgiu, in cui tre sedicenti professori sbrigavano con molta faccia tosta, tutto l'insegnamento delle 5 classi) abitavo in casa di una contadina (pagavo 5 lire mensili per l'alloggio, la biancheria del letto e la cucinatura della molto frugale mensa) che aveva una vecchia madre un pò scema, ma non pazza, che appunto era la mia cuoca e governante, la quale ogni mattina, quando mi rivedeva, mi domandava chi ero e come mai avevo dormito in casa loro ecc. Ma questa è un'altra storia. Ciò che mi interessa ora è che la figlia voleva sbarazzarsi della madre, voleva che il Municipio la inviasse a sue spese nel manicomio provinciale e perciò la trattava in modo così aspro e scellerato da vedere di costringerla a commettere qualche grave eccesso per aver modo di affermarne la pericolosità. La vecchina sempre diceva alla figlia che le parlava col Voi secondo il costume: "dammi del tu, e trattami bene!"...
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(1) Antonio Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di Sergio Caprioglio e Elsa Fubini. Introduzione e note di Sebastiano Vassalli, Giulio Einaudi Editore, Torino 1977
(2) L'orbettino (Anguis fragilis) è un piccolo rettile, lungo fino a 40 cm. del tutto inoffensivo. Ha il corpo cilindrico, privo di coda, e occhi piccoli circondati da palpebre.