Commemorazione di Mario Angelini
Ricostruire la figura di Bartolomeo Meloni, così come essa appare, illuminata dalla luce della sua morte, è dolce fatica sia per chi, essendo vissuto in più o meno costante dimestichezza con lui, può fare appello ai ricordi personali, sia per chi, avendolo conosciuto quasi soltanto di nome, intende ricorrere ai suggerimenti della fantasia e del cuore guidati da dati di fatto. Nell’ un caso e nell’ altro l’ Uomo Meloni balza fuori con una sua personalità singolare e inconfondibile, matura e dignitosa, perché l’ epilogo della sua esistenza, che serve di punto di partenza per la ricostruzione della sua figura, fu quella di un uomo eccezionale.
Se è vero che il martire non s’ improvvisa, nell’ un caso e nell’ altro si arriva a scoprire le scaturigini remote di così illuminata fine.
La prima via è stata seguita dal Dott. Armando Gavagnin nella sua relazione particolareggiata sull’ attività di Bartolomeo Meloni nel periodo clandestino, e dal Sac. Giovanni Fortin nel discorso su Bartolomeo Meloni, suo compagno di prigionia, ambedue riprodotti in quest’ opuscolo commemorativo. Tale relazione e tale discorso che inavvertitamente accompagnano ogni parola con un tremito del cuore ed ogni dato di cronaca con un trasalimento dell’ animo che non vorrebbe dire quanto è costretto a dire, sono così esaurienti, anche per quello che non dicono ma che fanno indovinare, che il lettore non chiede di più.
Ciò non ostante, benché l’ ingegnere e il patriota senza macchia sia eloquentissimo in quelle pagine com’ è eloquente nel silenzio maestoso della tomba, benché inviti anche oggi più a meditare che a parlare o a scrivere, non è atto profano turbarne la pace solenne e definitiva, rompere ancora per un pò la solennità del suo silenzio, l’ impenetrabilità del suo cielo di luce per esaltarlo con l’ impeto del cuore che, più che ai dati di cronaca, s’abbandona all’ impulso prepotente dell’ ammirazione e della venerazione.
In Bartolomeo Meloni il comune modo di vedere è più portato a considerare la vittima che il vincitore, il perseguitato da un duro destino che l’ uomo sublimato e immortalato da una morte gloriosa. Ma è un errore di prospettiva che egli ci chiede di non commettere.
Solo apparentemente in lui l ’ incivile vince sul civile, l’ inumano sull’ umano, solo per un attimo un’ orda di selvaggi pare trionfi sul suo ideale e sulla sua vita; ma poi all’ occhio sapiente e penetrante delle anime abituate all’ introspezione egli appare com’ è, il debellatore e il trionfatore di quelle che Nietsche chiamò con definizione blasfema le “ belve bionde civilizzatrici ,,.
Certamente egli ha dovuto pagare a caro prezzo la sua vittoria, al prezzo della vita, ma appunto per questo, perché ha pagato il massimo prezzo, ha ottenuto la massima vittoria. Non è un paradosso, è una verità.
Noi non potremo mai dire d’ avere amato l’ idea e la Patria come lui, perché non abbiamo conosciuto come lui e come molti altri, i patimenti, le tentazioni del tradimento e del rinnegamento e, cosa più terribile di tutte, l’ angoscia di sentirci forse chiamati al dono più grande.
Per questo egli è distante, più avanti e più in alto di noi; per questo più che parlare di lui, noi dovremmo raccoglierci in un silenzioso gesto di venerazione e molto pensare.
Bartolomeo Meloni giganteggia quando, nauseato delle indegnità con cui l’ Italia fascista deturpava le bellezze patrie e fatto consapevole della necessità di agire, getta la maschera che gli avevano imposto e, superata ogni inquietudine, intraprende un’ indefessa attività clandestina per la riabilitazione della Patria; quando, pur avendo gettato l’ anima al di là di ogni rischio e affrontato impegnative responsabilità e occulti pericoli, si rifiuta di lasciarsi includere nella lista di persone, che avrebbero dovuto ricoprire cariche importanti nel Compartimento Ferroviario; quando, ammanettato, condotto in carcere e seviziato, tace i nomi dei compagni di lavoro e di gloria. Tanta forza di decisione e di equilibrio, tanta luce di dedizione e di abnegazione scaturirono in lui dalle misteriose profondità del suo animo che se è impossibile penetrare, si possono però indovinare. Forse il rivolo d’ oro che emana dall’ anima sua si rifà a una lontana sorgente. Forse sulle ginocchia auguste di sua madre, in quel vivaio di esplodenti e disciplinate energie che è la famiglia sana prima e poi la scuola e la società civile, dove la forza cieca degli istinti e degli impulsi è guidata al retto uso dell’ intelligenza, dalla volontà e dall’ autorità congiunte in superiore armonia, egli imparò l’ arte difficile dell’ autogoverno e della coerenza.
Certamente non fu abituato a considerare la vita come comoda acquiescenza a uno stato di fatto, come superba ambizione di cariche, come bene che vale più dell’ onore e dell’ amicizia e, tanto meno, come espressione di forza bruta e unico limite del proprio diritto, ma come palestra di acquisto di tutte le virtù civili in un clima di fraternità e solidarietà umana.
Tale sua educazione postulava le posizioni nette e rifuggiva da ogni atteggiamento che suonasse consenso a uno stato indegno di cose. Chi scrive ebbe occasione d’ esprimergli una volta tutta la propria ansietà di educatore nel constatare nella pedagogia di quello che fu il partito fascista certe espressioni che, sebbene lanciate là come per caso tra una congerie di precetti educativi, ne formavano la sostanza e minavano alla radice l’ educazione. Erano aforismi, primi principi indiscussi e indimostrabili che bisognava accettare senza discutere. Qualche esempio? Ecco: "Molti nemici, molto onore ,, - “ I rapporti fra i popoli sono rapporti di forza,, - “ Bombe a man, carezze col pugnal,, - “ il duce ha sempre ragione,, ecc. ecc.
Ebbene non posso dimenticare i trasalimenti della sua anima grande e semplice a tali enunciati. E ciò non perché fosse un imbelle, ma perché sapeva che il culto della forza per la forza è la suprema delle degenerazioni umane.
Solo un pessimista pensatore tedesco, Osvaldo Spengler, il profetizzatore della fine della nostra razza, poteva scrivere che’ “l’ uomo è il più perfetto degli animali da preda ,,. Ma queste sono parole nere che sottintendono sotto il padiglione celeste soltanto guerre, rivolte, distruzioni e avventure fanatiche e altrettanti inevitabili crolli determinati dalla nemesi storica che esige l’ equilibrio delle forze a garanzia dei reciproci diritti.
Ma la grandezza di Bartolomeo Meloni che brilla di luce più viva è la sua vita di carcerato in Patria, d’ internato e di esule in terra nemica. Le parole sono impari a ridire il tormento di chi si sente libero e si vede ammanettato, si sente degno cittadino e si vede esiliato. La libertà per tutti è il dono più grande, ma per alcuni è la ragione e l’ essenza della vita e quindi un bene insostituibile, perduto il quale, può sembrare che non valga più la pena di vivere. Per questo Catone che si toglie la vita a Utica desta anche oggi delle simpatie.
Ma se il togliersi la vita nelle più gravi calamità è un gesto di forza e di grandezza, non togliersela quando tutto è perduto, ma sperare ancora nell’ insperato, avere il coraggio di riservarsi ancora per un non impossibile domani di rivincita ed accettare di servire la propria causa anche nell’ ignominia del carcere e dell’ esilio e della tortura sia pure convinti che non si sopravviverà che nell’ immortalità del propriò spirito e dell’ idea, questo è eroismo, è santità. E di questo eroismo, di questa santità io vedo brillare la fronte radiosa di Bartolomeo Meloni, l’ esule che si sente morire ad ogni passo che l’ allontana dalla sua Patria sotto il peso del proprio tragico destino, il proscritto che lungo la via del calvario filosofeggia in un carro bestiame con i muli perché ritenuto indegno di compagnia meno ignobile.
Il cuore gli doveva terribilmente dolere, specialmente quando la mente ci si fermava a meditare sulle sue ferite, ma l’ anima, se vuole, può essere più forte del suo dolore. Per questo né il ricordo angoscioso degli affetti familiari perduti, delle amicizie fedeli lontane, della carriera brillante spezzata, che egli aveva giocato con illimitata prodigalità nell’ interesse della Patria, né la visione dolorosa del presente né quella fosca dell’ avvenire senza certezze e senza speranze, valse a fargli perdere il controllo di sé, l’ equilibrio delle sue forze morali o a sommuovere l’ unità interiore della sua coscienza. La grandezza della sua anima fu pari alla profondità della crisi sofferta.
Nella bolgia infernale di Dachau, una delle macchie più tristi e degradanti d’ Europa, invece di abbattersi e morire vinto prima dal dolore che dalla morte, la sua anima grande dimentica quasi il piccolo grumo di carne in cui è avvolta, si fa sempre più trasparente e impara di nuovo la suprema delle leggi che interessano la vita, la legge dell’ amore e della misericordia per aver dimenticato la quale gli uomini sono diventati fra loro lupi feroci e strumento soltanto di tortura.
Là comprende definitivamente che per poter risorgere sopra un panorama di macerie in senso umano e democratico e guarire dalla più grave malattia dello spirito, l’ uomo deve riprendere ad amare e a rispettare nel proprio simile la sua immagine. Solo allora i mattatoi di creature, i campi punitivi, i lazzaretti, le camere a gas, le fosse crematorie, le spedizioni punitive, i lavori coatti scompariranno dal linguaggio umano.
Forse a tale riscoperta contribuirono alcune anime pietose che con rischi personali seppero in lui ravvivare la fede nel bene sopito o spento nei più, ma non scomparso dalla terra: primi fra tutti i tre buoni sacerdoti, l’ uno austriaco, l’ altro polacco, il terzo italiano e il Dott. Arko che gli furono larghi di affettuose cure e premure, di promesse e mantenimenti.
Ma più di tutti a lui verberato a sangue e lasciato quasi morto perché, sfinito dai patimenti e dai disagi, si era addormentato sul suo giaciglio e non aveva potuto comparire all'appello, deve essersi fatto incontro il più bello e il più buono dei figli dell'uomo, il divino Martire del Golgota, Gesù, anche Lui verberato e piagato solo perchè aveva insegnato agli uomini l'amore, anche Lui dimenticato e incompreso: e dall'incontro nel momento del dolore che non ha nome e che non consente ribellioni rifolgoreggiò la fede e l' amore, acquistò nuova luce il suo stesso martirio. Capì allora che soffrire perché l'ideale suo non morisse, sentirsi l'anima attanagliata dal dolore perché altri dolori fossero risparmiati ai propri fratelli e all'umanità tutta era una grande missione. E l' accettò definitivamente con commossa fierezza.
Ormai con lui era Colui che nei recessi misteriosi della sua anima bella non aveva mai perduto, il Cristo, il più santo dei figli di donna, l' Uomo - Dio che ricordava d'aver imparato ad amare sulle ginocchia della madre, come confessa candidamente al sacerdote italiano, suo compagno di prigionia.
Non fa quindi meraviglia se per confessarsi e comunicarsi affronta prudentemente ma quasi spavaldamente con il suo degno sacerdote ed amico il pericolo di subire venticinque nervate, la pena stabilita per i cosiddetti reati religiosi; se poi si fa apostolo d'amore e di dedizione e angelo di consolazione fra i suoi compagni di sventura, come attesta un testimone oculare. Il buon lievito non può non lievitare la massa.
La malattia e la morte avvenuta il 10 luglio 1944 lo colgono in un atteggiamento di grandezza e di magnanimità che è la fine degli spiriti augusti.
Ora Bartolomeo Meloni non è più, ma il suo spirito vive in un mondo dai più vasti e luminosi orizzonti nel quale attende anche noi. Ci resta di lui la sua eredità migliore, il suo martirio per il quale, congiunto a quello di molti altri, siamo fatti salvi. In lui ciascuno di noi ha sofferto ed espiato, da lui tutti abbiamo meritato. Per questo egli è più vicino a noi di quanto noi non lo siamo a lui e ci dice, additandoci le ceneri del suo martirio che ancora fumigano: siate degni di me.
Mario Angelini