Bartolomeo Meloni
Nato a Cagliari nel 1900 da una ricca famiglia di Santulussurgiu, nobile per meriti agrari, laureato in ingegneria al Politecnico di Torino, dal 1926 ingegnere ferroviario, è ispettore generale delle Ferrovie dello Stato a Venezia dove risiede continuativamente eccetto due anni in cui è trasferito a Milano per sovrintendere alla costruzione della nuova stazione ferroviaria.
Armando Gavagnin, fra i fondatori del Partito d'Azione e sindaco di Venezia dopo la Liberazione, ricorda, nel suo libro di memorie Vent'anni di resistenza al fascismo, di averlo conosciuto alla Siderocemento di Venezia, che fu nel periodo precedente e successivo ai quarantacinque giorni di Badoglio la sede dell'attività clandestina del PdA . Bartolomeo Meloni si iscrive al partito dopo alcune sue incertezze dovute al problema di conciliare la fede cattolica con l'impegno in un partito che si dichiarava laico e socialista.
Gavagnin scopre, nel conoscerlo meglio, una straordinaria figura umana: «Mi convinsi che Meloni era veramente il primo tra i ferrovieri, il primo per elezione spontanea, naturale, non discutibile, il primo perché il migliore». Si dà subito alla formazione di un'organizzazione ferroviaria antifascista che preveda il trapasso a una società democratica con l'epurazione delle persone più compromesse con il passato regime. D'accordo e su incarico di tutti i partiti forma una lista di persone che avrebbero dovuto ricoprire cariche importanti nel Compartimento ferroviario: «In quella lista, — ricorda Gavagnin —, che io stesso presentai ai dirigenti ferroviari il suo nome non c'era e invano feci insistenza perché figurasse. Egli non ne volle sapere. Era stato iscritto al partito fascista e questo stabiliva una incompatibilità, che secondo lui non poteva essere superata. Invano feci distinzioni, parlai di necessità e di esperienza. Fu irremovibile e volle che fra i nomi indicati figurassero in prima linea quelli di persone mai iscritte al partito» .
L'ascendente che acquista fra i suoi compagni di lavoro è enorme: dovuto non solo alle sue qualità professionali, che pure sono eccellenti, ma soprattutto «alla sua integrità morale, alla simpatia umana, alle capacità di guida» . È la stessa capacità di guida morale e anche politica che ha, nei mesi delle vacanze estive a Cagliari, su un gruppo di giovani che invitava intorno a sé a meditare, riflettere, a pensare: «Ci parlava dell'Italia con lo stesso entusiasmo, la stessa fede, lo stesso palpito con cui ci avrebbe parlato della sua prima unica donna. Di quotidiani contatti con uomini come lui avremmo avuto bisogno, noi giovani, per poter veramente intendere la perfidia dell'ombra che ci avvolgeva e giungere a strapparne il velo». Aveva un solo modo di parlare, tutto speciale. «Dopo lunghi silenzi, mentre ci ascoltava seduto tra noi ad un tavolino del caffè 'Caredda e Loi' di Piazza Martiri o lungo il solitario viale del terrapieno, interveniva con una inaspettata veemenza di parole, calde, convincenti, sincere. A forma di interrogativi continui, ai quali noi non potevamo rispondere se non convenendo con lui. E non si gloriava del trionfo, ma quasi compiangeva il nostro smarrimento spirituale e avrebbe voluto [...] che anche noi possedessimo la sua purezza di idee e la sua fede cristallina» .
Dopo l'8 settembre con Armando Gavagnin cerca di convincere i comandi militari alla resistenza contro il tedesco. I risultati negativi non lo abbattono. Si butta anima e corpo nell'azione diretta: con un largo gruppo di ferrovieri e di volontari che è riuscito a legare intorno a sé, e che daranno poi vita alle 10a e 11a brigate «Matteotti», operanti nel Veneto, organizza il sabotaggio delle tradotte militari su cui i tedeschi ammassano come bestiame soldati e marinai italiani per trasportarli in Germania. Organizza l'assalto ai treni per liberare i prigionieri, devia convogli verso il Friuli e la Jugoslavia dove la presenza partigiana è già forte, aiuta a fuggire verso i rifugi sicuri gli ebrei del Ghetto di Venezia .
La sua attività è instancabile. Tutta la sua intelligenza è riversata nell'organizzazione del sabotaggio della presenza tedesca; a lui si rivolgono i comandanti delle formazioni partigiane per avere indicazioni tecniche ma anche incitamento morale . Al suo contributo è dovuta la sopravvivenza dei gruppi partigiani in quei primi giorni di difficile resistenza: «Meloni cercò tutto, specialmente armi. Si diede a farne incetta ricorrendo ai suoi ferrovieri, ai parroci, alle popolazioni, ai soldati che avevano prestato servizio nelle polveriere e nei forti, e costituì depositi d'armi e di esplosivi, nei quali aggiungeva o prelevava secondo i bisogni» . Agostino Zanon Dal Bo («Gracco»), analizzando le azioni compiute fra settembre e ottobre e riportate nel «Notiziario storico» della seconda divisione partigiana «Matteotti», scrive: «La circostanza che desta maggior stupore è che tutti questi tipi d'azione vennero, non sappiamo se anche ideati (alcuni si imponevano da sé), certo iniziati e portati avanti dall'ing. Meloni in meno di due mesi d'attività, durante i quali trovò anche il tempo di partecipare a riunioni politiche del PdA, che talvolta ospitava in casa sua» , in Calle delle Erbe.
Fu arrestato il 4 novembre nel suo ufficio dalle SS tedesche, mentre i fascisti perquisivano e saccheggiavano il suo appartamento. L'arresto di Meloni «fece tremare molti cuori, ma soltanto per la sorte del fratello. Tutti sapevamo che egli non avrebbe parlato» .
Alla fine di settembre Bartolomeo Meloni era entrato in contatto con Silvio Trentin, l'anziano professore ed ex deputato antifascista emigrato in Francia nel 1925 per non sottostare nel suo incarico universitario alla dittatura fascista, e che, rientrato dall'esilio e ora rifugiato in una villa a Mira, stava gettando le basi politiche e militari della Resistenza veneta facendo fruttare l'esperienza maturata in Francia nel movimento di resistenza all'invasione tedesca «Libérer et Fédérer».
Gavagnin dice che dopo il primo incontro «quel che avvenne [...] ha dell'incredibile: Meloni subì il fascino di Trentin, che subito appariva a tutti personalità superiore» . Ma il fascino è probabilmente reciproco, e stupisce in un uomo di lunga battaglia antifascista come Silvio Trentin che in una lettera a Emilio Lussu, del 23 ottobre 1943, scrive: «Da lunedì mi trovo praticamente investito della direzione della resistenza in tutto il Veneto. Credo che potremo mettere in piedi qualcosa di grande e di bello. Ho per luogotenente un tuo concittadino: MAGNIFICO» . Il magnifico in tutto maiuscolo vuole indicare la profondità della simpatia umana che stava al fondo della collaborazione.
Dopo l'arresto Meloni è portato nel carcere di Santa Maria Maggiore, dove resta due mesi e mezzo, poi a Verona da dove è deportato in Germania nel campo di concentramento di Dachau.
Anche nei lunghi mesi della prigionia continua ad assumere su di sé il peso del dolore degli altri e a diffondere la fiducia in una società diversa e giusta in cui non sarà più possibile la barbarie nazista.
Il sacerdote don Giovanni Fortin, che gli è compagno di prigionia, ricorda il primo incontro: «C’incontrammo i primi giorni ed ivi scambiammo le nostre impressioni; e dico il vero, mai ho trovato un'anima così aperta, un'anima così profondamente conoscitrice delle umane miserie, un'anima che sentisse veramente il palpito di amore e di tenerezza fraterna per i sofferenti» .
La vita nel campo di concentramento è un inferno a cui solo fibre eccezionali hanno resistito: «Fummo spogliati delle nostre vesti, spogliati, depilati e disinfettati — dicevano loro — con petrolio, e all'aria aperta, a trenta gradi sotto zero, nudi, fummo costretti a correre sulla neve, fatti segno di obbrobrio e di ludibrio da parte della milizia tedesca» .
Da Dachau viene trasferito in un campo di concentramento in Cecoslovacchia dove è costretto a lavorare nei campi. Il cibo non è sufficiente a rigenerare l'organismo per la fatica del giorno dopo e i prigionieri deperiscono in poco tempo. Una sera Bartolomeo Meloni non si regge in piedi dopo il lavoro: «Tornato alla baracca si pose del suo giaciglio, prese sonno, e all'ora dell'appello non poté comparire sulla piazza. Si cercò il mancante e lo si trovò addormentato sopra il giaciglio. Montato in furia il capo della baracca, con un grosso nerbo di bue lo percosse a tale segno da farlo credere morto. Da quel giaciglio non si poté levare; e si giustificò allora l'assenza del colpito, l'assenza del battuto; soltanto allora fu giustificato all'appello»
Trasferito nuovamente a Dachau ancora in gravi condizioni, vi muore il 9 luglio 1944.
Per i compagni che, finita la guerra ne aspettavano il ritorno, l'annuncio della sua morte è un grave colpo. Vengono indette manifestazioni per ricordarlo. In particolare il Circolo artistico di Venezia, del quale Meloni era stato socio e animatore — perché anche per i suoi interessi e le sue conoscenze dell'arte s'era fatto apprezzare — fanno affiggere una lapide nella sala maggiore del Palazzo delle Prigioni che tuttora lo ricorda: «Martire per la Patria e la Libertà — Bartolomeo Meloni — coi primi patrioti veneziani qui — cospirò per la rivolta e la liberazione»
MAVM: "Ispettore principale delle ferrovie dello Stato, aderiva fin dall’inizio al movimento clandestino di liberazione mettendo al servizio della causa il suo ingegno, la sua capacitò tecnica e professionale. Raccoglieva armi, munizioni e materiale per distribuirlo alle formazioni partigiane combattenti, sabotava in modo irreparabile locomotive, carri ed impianti ferroviari, deviava l’istradamento di interi convogli avviandoli al confine jugoslavo per dare modo ai prigionieri alleati di unirsi ai partigiani slavi. Arrestato a Venezia per l’attività patriottica che non conosceva tregua nel pericolo, sopportava interrogatori, torture e sevizie senza nulla svelare, né valse la lusinga di aver salva la vita a smuoverlo dal fiero silenzio, Deportato a Dachau, non reggeva alle sofferenze e alla fame, e consunto dal fiero morbo contratto moriva da eroe purissimo offrendo alla Patria l’olocausto della vita. Il suo cadavere non ebbe la pace della sepoltura e le sue ceneri, dopo la cremazione, furono disperse nel vento. Venezia, 8 settembre 1944 – Dachau, 10 luglio 1944".
PORCHEDDU1997, pp. 178-179
SECHI1986, pp. 162-166
In: www.sotziu.it