Orune (di Carlo Levi)
Quando è scesa la notte, a Orune, e il vento arriva gelido da Santandria, e pare risalga il monte come qualcuno che corra su per l'erta con un suo fascio di spine pungenti, e le pozze d'acqua per terra si ricoprono di una crosta di ghiaccio che scricchiola sotto i piedi, al lume giallastro dei radi fanali, e chi s'incontra per via invita a bere qualcosa, ci si rifugia volentieri, intirizziti, in un bar.
Si resta in piedi a parlare, aspettando il bicchierino; i giovani parlano dei luoghi lontani dell'emigrazione, della crisi della pastorizia, delle riunioni per il piano di Rinascita, delle vicende del paese.
Seduti su una panca bassa, vicino alla porta, due vecchi pastori, vestiti di pelli di pecora, con le brache bianche, la uose, sa berritta, il bastone in mano, stanno lì, fermi e silenziosi, come pietre o statue barbariche. Uno ha un viso selvatico e nero, duro di lineamenti, concentrato in occhi immobili, in pieghe bruciate di sole tra la vegetazione robusta delle sopracciglia e dei baffi. L'altro, il più vecchio, ha un volto sottile e arguto, chiaro di pelle, bianco di barba, con occhi vivaci pieni di astuzia e di intelligenza. Rispondono, come antichi padri, ai saluti dei giovani e dello straniero, e parlano volentieri di quello che qualcuno chiede.
É il bianco che parla, con la compostezza e la misura di un saggio. Il nero consente, conferma, e sorride anche talvolta, immobile in una sua assenza che sembra considerare le parole inutili ornamenti del tempo. Il bianco parla della caduta del prezzo del latte, che è dimezzato, delle difficoltà del lavoro, ma senza alcun tono drammatico, come di chi queste cose le ha viste, prevedute e patite chissà quante volte nella sua vita. Parla di quegli uomini antichi, dei nuraghi, e di coloro che ora vanno per le campagne a ricercarli e scavarli, parla delle notti dei pastori, soli nella campagna buia. [...]
Gli amici mi portano a vedere la fontana sotto la piazza, legata al ricordo di Grazia Deledda; e di qui la casa dove visse e morì lo studente, protagonista del romanzo Colombi e sparvieri. Qui la giovane Deledda veniva a trovare il suo amico. Nella stanza una vecchia racconta i suoi ricordi della scrittrice, e mi canta gli attittos cantati allora per il lamento funebre dello studente, che le era nipote: in un angolo sua figlia allatta il bambino sotto gli occhi del marito.
Scendiamo ora dal maestro cieco, che preparerà qualcosa per la cena. Passiamo con l'automobile per i vicoli, nella parte bassa del paese, e ci fermiamo in uno slargo, davanti a una porta da cui trapela una luce. La porta si apre, qualcuno appare sulla soglia, con viso ansioso e interrogativo. Gli amici si scusano di essersi fermati lì. Non avevano pensato, in quella stradetta oscura, che la sola casa illuminata era quella di una famiglia in attesa angosciosa, e che l'arrivo di una macchina li avrebbe turbati. Il giovane figlio di quella famiglia era scomparso da tre giorni. Veniva dal Continente, era sbarcato dalla nave a Olbia, lo avevano visto sul molo mentre aspettava la partenza dell'autobus, si era allontanato un momento, ed era sparito. Forse il vento furioso di quei giorni lo aveva spinto in mare? O era stato rapito? In quella casa vegliavano, aspettando.
Traversato lo spiazzo, ci aspettava la casa del cieco: una stanza nuda, col focolare acceso: la madre e la sorella affaccendate e silenziose; e noi, l'amico nuorese, l'anziano pastore capopaese, e un giovane pastore. Si arrostiscono sulle fiamme le salsicce e il formaggio, e comincia la lunga serata. A poco a poco, ciascuno inventando, o ritrovando nella discussione argomenti e notizie, si cer- ca di ricostruire la storia recente di Orune. Ciascuno ha il piacere di scoprire, parlando, incerte verità. Orune è cambiata, dicono: trent'anni fa era un paese di contadini. Oggi non ci sono più contadini, tutti sono ritornati pastori, se non sono emigrati. L'antica lotta fra il mondo contadino e il mondo pastorale, che è ancora il fondo della vita della Barbagia, sembra risolto ora, contro la generale tendenza, in favore del secondo. Ma anche la pastorizia è in crisi. [...]
Si fa il conto degli abitanti del paese: li conoscono tutti, uno per uno. Sul terreno comunale ci sono 167 pastori, altri sugli altri terreni, in totale sono da trecento a trecentocinquanta, più sessanta che fanno i pastori nelle terre del Lazio; insomma i pastori sono circa quattrocento. I braccianti sono, chi dice centocinquanta, chi quattrocento, comprendendo o no quel centinaio che lavorano a Nuoro; di artigiani e operai ce ne sono cento, gli emigrati all'estero sono centosettanta; duecento ragazze fanno le domestiche a Roma; tra bambini e studenti sono milleottocento. Contadini nessuno: i bar sono ventisei.
Così gli amici analizzano e scoprono da soli la composizione del loro paese, e la sua storia (che importa, se incompleta o parziale?), con l'ondulante vicenda delle terre e delle occupazioni, il trasformarsi alterno dei contadini in pastori e viceversa, e la dura risorsa della fuga, e l'incidere delle lontane vicende del mondo sulla vita degli uomini, in questa terra remota. É una storia che si va facendo in loro, e precisandosi mentre parlano, dove i documenti sono la memoria, la poesia popolare, i modi del costume, come sa socìa.
I pastori, una volta, che allevavano greggi di maiali, tanti anni fa, usavano ammazzarli tutti in un giorno, e mettevano tutto il lardo in casa, mentre ciascuno distribuiva un po' della carne al vicinato. Sa socìa, o succìa, dice l'uno, viene da succhiare, consumare tutto in un giorno. Oppure viene, dice l'altro, da società. Sarà così? - Suzìa, - conclude il pastore, - è una parola antica.
Tratto da: Carlo Levi, Tutto il miele è finito, Torino, Einaudi, 1964